Gli artisti? Leader senza voce.

Penso che quello che sia accaduto al mondo dell’arte ultimamente sia assolutamente coerente con la società resettata da cui proveniamo, e al contempo che sia giunto il momento di lavorarci su.
Sin dall’inizio della pandemia gli artisti sono stati leader sociali, punti di riferimento per intere comunità, a livello privato, s’intende. E non è un caso: essi lavorano con l’interiorità, con il sentire, con le paure, con le emozioni, in poche parole: con le persone. Sono persone che ascoltano. Sono tutti sensibili (anche se non tutti sono empatici). Sono spesso gli innovatori della società, coloro che hanno le intuizioni sul futuro, per l’abitudine di addentrarsi nel mistero della vita e della coscienza umana.
Eppure ciò che si è visto è che non hanno ufficialmente un posto. Ci penso e ci scrivo su da molti punti di vista, già da un po’.
Non entro nel merito delle azioni che colleghi più preparati e titolati stanno attuando per la categoria degli artisti per iniziare ad esistere istituzionalmente, ma condivido la mia visione delle cose, poiché quello che gli artisti stanno dicendo è che non hanno voce perché il Ministero non li ascolta e, casualmente, io da gennaio scorso sto studiando per mettere in scena uno spettacolo che si chiama “La Voce”.
“Ma che c’entra?”, direte voi, uno spettacolo che prende il via da uno studio sull’anoressia, con la crisi dell’arte e il suo mancato ascolto da parte delle istituzioni?
Lo spettacolo si intitola così perché molte persone che hanno sofferto di un Disturbo del Comportamento Alimentare riportano l’esistenza di una voce in sé, tirannica e crudele, che invita a creare le condizioni per la sofferenza fisica attraverso un comportamento alimentare compulsivo e altre abitudini dannose. Tra le infinite maglie e sfumature di quella ricerca, impossibile non osservare e non sentire nei corpi affamati, drammaticamente, violentemente e mutamente espressivi delle persone anoressiche il teatro del rifiuto e della prigionia, la manifestazione autodistruttiva della violazione di sé, della profondità e della sensibilità, di cui le persone affette da DCA sono estreme rappresentanti, della galera interiore a cui costringe una società in cui l’interiorità non ha alcun valore e deve essere dimenticata o soppressa, dell’unicità dell’essere a fronte dell’omologazione collettiva della società dell’apparire.
Le istituzioni sono l’espressione della società, e il suo mezzo per organizzarle la vita.
Di quale società sono dunque espressione? Di una società che concepisce l’arte unicamente come un bene materiale da consumare: i teatri, i musei sono considerati in quanto edifici, e depositi di opere che si possono toccare. Le realtà considerate dalle istituzioni sono tendenzialmente le più grandi, come se il tessuto culturale di cui l’Italia si fregia come di un DNA non avesse altra essenza e altra dignità. Tutto ciò che è essenziale all’arte, la ricerca, il confronto, il viaggio, le prove, la vita, non toccandosi come un mattone e non mangiandosi come un panino, semplicemente non esiste.
La società resettata da cui proveniamo era la società del muro. Che cosa rappresenta il muro?
Senza scomodare i Pink Floyd, mi è abbastanza immediato vedere nel muro il simbolo della materia.
Non ci sarebbe niente di male nella materia se fosse chiaro che non è separata dall’essere. La prima materia con cui facciamo contatto è questo nostro corpo, la materia allora contiene la vita, ci fa fare esperienza della vita. Ma noi l’abbiamo dimenticato, e da troppo tempo abbiamo separato il corpo dalla sua interiorità. Vale per il nostro corpo umano e vale per tutto ciò che ha un corpo. Ci siamo raccontati che si può conoscere il mondo, toccarlo, senza sentire. E com’è facile distruggere, quando non senti la vita dentro le cose. E noi ci siamo dati questa licenza di distruzione, ci siamo abituati a crederci più importanti della natura, delle piante, degli animali, più importanti degli altri esseri umani.
Abbiamo tagliato gli alberi in tutte le nostre città senza ragioni chiare e condivise, siamo quelli che hanno distrutto la foresta amazzonica, “il polmone del mondo” e ci siamo ritrovati preda di un virus che colpisce i polmoni. Siamo quelli che erigevano muri e muri, “prima gli Italiani”, “prima i Veneti”, “prima i Veneziani”, “prima quei de Casteo”, insomma, “prima io!”, e vale per tutti i paesi come il nostro, fino a che ci siamo trovati dentro 4 mura da soli, e non ci è bastato ancora per capire. Se questi siamo noi, ci sorprendiamo perché l’arte, voce dell’interiorità, dell’invisibile, non ha davvero un posto in questa società, del fatto che non ha un diritto, che non ha voce?
Personalmente credo sia l’ora di agire sulle radici profonde di questa rossa voce muta, di questo corpo affamato che si rende invisibile teatralizzando la sua espulsione dal mondo, e io le individuo nello squilibrio degenerato tra valore di ciò che è materiale e valore di ciò che è interiore e invisibile. Fare ed essere stanno insieme. Forma e sostanza stanno insieme. Interiorità e corpo stanno insieme. Si incontrano all’altezza del cuore. L’una senza l’altro degenerano. Fino al reset.
Voglio una voce di petto.
Foto: Prima immagine dello spettacolo “La Voce” di FZU35 Flowing Streams.